Il campo di internamento di Ferramonti di Tarsia

Il campo di Ferramonti nasce come complesso di capannoni destinati all’alloggio degli operai che in quel periodo stava bonificando la zona ancora malarica.

Durante il nazi-fascismo mezza Europa fu interessata dalla costruzione di Campi di concentramento e di sterminio in cui rinchiudere e uccidere ebrei, apolidi, coloro che erano contrari al regime, zingari.

Sotto gli ordini del costruttore Parrini il campo fu così convertito a zona di internamento. Aperto nel 1940 tra Giugno e Settembre, periodo in cui l’Italia entra in guerra, sarà liberato dagli inglesi nel ’43 e chiuso definitivamente nel 1945. Il campo era infestato da insetti ed era costituito da 92 capannoni situati in un perimetro di circa 160.000 m² nei pressi del fiume Crati.

Vi erano capannoni di 335 m², con due camerate da 30 posti, e capannoni da 268 m², che accoglievano otto nuclei familiari di cinque persone o dodici nuclei familiari da tre persone.


Nonostante la sua natura di luogo di detenzione le condizioni del campo furono sempre discrete e umane.
Nessuno degli internati fu vittima di violenza o trasferita direttamente in Germania in quanto i carceriei mai diedero seguito alle richieste tedesche.

A morire di morte violenta furono 4 persone vittime di un mitragliamento di un caccia alleato. Il campo non fu in alcun modo Lager di transito per la Germania. Erano permesso contatti con l’esterno, ci si poteva organizzare per eleggere dei rappresentanti, vi era un’infermeria, una farmacia, una scuola, una biblioteca e un teatro. E ancora una chiesa cattolica, due sinagoghe e una chiesa greco-ortodossa.

Nel campo ci si poteva sposare infatti nacquero 21 bambini durante il periodo di apertura. A conferma di questa sua storia di umanità, le relazioni degli ufficiali del Regno Unito che entrarono a Ferramonti nel 1943, descrissero il campo di Ferramonti più come un piccolo villaggio che non un campo di concentramento. Gli ufficiali di polizia ebbero sempre degli attriti con la milizia a causa della loro umanità.

Tra tutti merita di essere ricordato il primo direttore Paolo Salvatore che fu poi allontanato dal campo dai tedeschi.


Dall’estate del 1942 fu concesso a tutti gli internati che lo volessero il permesso di lavorare al di fuori del campo per integrare le scarse razioni alimentari.

È anche importante ricordare i vicendevoli rapporti di aiuto e di solidarietà intercorsi fra gli internati e la popolazione di Tarsia.


Insomma in un’epoca di odio razziale, di guerra, fame e sofferenza i calabresi hanno saputo rimanere umani e aiutare il popolo ebreo ingiustamente condannato per la sola colpa di essere della religione sbagliata, di avere l’aspetto sbagliato, di provenire dal posto sbagliato.

Forse dovremmo imparare dai nostri nonni come si fa a restare essere Umani.

Sabina Maiolo

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