Per non dimenticare: i deportati serresi.

In occasione della giornata della memoria  a Serra San Bruno il ricordo dei deportati serresi rivive: per non dimenticare.

La cittadina dell’entroterra vibonese non fu immune alla desolazione della guerra, qui tre storie  si tessono nei giorni della sofferenza del periodo fascista e della seconda guerra mondiale.

Tre uomini, tre eroi serresi: Vincenzo Giofrè, Gerardo Amato e Giuseppe Sorrentino.

Vincenzo Giofrè

La storia di Vincenzo Giofrè per certi versi intristisce forse più delle altre nei limiti del possibile.
Come diceva Sartre: “La libera scelta che l’uomo fa di se stesso si identifica esattamente con ciò che si chiama il suo destino.”
Quella di Vincenzo fu una libera scelta. Era stato assegnato alle forze armate ma la sua convocazione ufficiale era andata perduta e dunque poteva rimanere ad occupare il ruolo che aveva nella territoriale ed evitare il fronte.
Decise però di unirsi all’esercito e lasciò così sua moglie incinta di 5 mesi e due figli di 5 e 3 anni per difendere la sua Patria.
All’indomani dell’Armistizio l’incolume Vincenzo avrebbe potuto tornare ad esercitare il suo ruolo di Carabiniere ma per la seconda volta decise di restare. Si unì alla Resistenza ma fu catturato dai nazisti. Riuscì a scappare e si rifugiò in Francia. Con una carta d’identità falsa e con nome francese tornò nell’est Italia per la terza volta. Qui fu però catturato nel febbraio del 1945 e condotto nel campo di concentramento di Mauthause in Austria.

Il dottor morte

È il nipote e omonimo Vincenzo a mostrarci le ultime tracce di vita di suo nonno tramite un documento che dimostra le tante visite in infermeria del Carabiniere. Non per premura dei suoi aguzzini però.
Vincenzo era un uomo in forze, un metro e novanta di altezza. Il dottor morte di Mauthause lo scelse per i suoi esperimenti, per scoprire quanto velocemente un uomo sarebbe deperito vivendo nella privazione e assumendo lassativi.
L’ultimo ingresso in infermeria di Vincenzo è del 28 Aprile del ’45 e il suo peso era di 34 kg.
5 giorni più tardi i tedeschi avrebbero abbandonato il campo ma solo il 5 Maggio gli americani lo avrebbero proclamato finalmente libero.

Vincenzo morì probabilmente di stenti e a causa delle pessime condizioni di salute nell’intervallo tra la resa dei tedeschi e l’arrivo degli americani.

Giuseppe Sorrentino

È un fiero Arnaldo Sorrentino che ci racconta la storia di suo padre: Giuseppe Sorrentino.
Classe 1901, anch’egli Carabiniere nato a Galatro, partecipò alla campagna di Etiopia e al secondo conflitto mondiale.
Dopo l’armistizio rifiutò di essere liberato per unirsi ai tedeschi  e fu così internato a Stammlager IV, un sottocampo di Buchenwald.

Ufficialmente era un campo di lavoro in cui anche i cosiddetti IMI, internati militari italiani, erano tenuti prigionieri. Nella realtà un campo di sterminio in cui chi non era più utile veniva condotto nei forni crematori.
Arnaldo ci racconta che suo padre era riuscito a tornare a Laureana di Borello e che essendo in discreta salute potè riprendere il suo ruolo di Carabiniere. Fu così che venne trasferito a Serra San Bruno dove visse con la famiglia il resto dei suoi giorni.

Favoreggiamento del nemico

Sono pochi gli episodi raccontati ai figli, uno su tutti colpisce maggiormente per la crudeltà. Mentre Giuseppe e i suoi compagni di sventura lavoravano nei campi una donna diede di nascosto ad un altro prigioniero la buccia di una patata che questi nascose sotto la maglia. Immediatamente entrambi furono  raggiunti da colpi di fucile. Il soldato delle SS che aveva sparato urlava di aver ucciso anche la donna per “favoreggiamento del nemico”.
Di umano in quella guerra non era rimasto nulla” è l’amara chiosa di Arnaldo.

Gerardo Amato

L’ultima storia che vi racconteremo è quella di Gerardo Amato. Gerardo era un soldato di istanza nell’isola di Rodi.
Dopo l’armistizio dell’8 Settembre gli fu concesso di collaborare con i tedeschi e dopo essersi rifiutato fu deportato  anch’egli a Stammlager IV B dopo un breve transito a Buchenwald.  Gerardo grazie alla sua abilità di falegname viene utilizzato per riparare caserme e case bombardate ma anche per seppellire i cadaveri provocati dall’avanzata degli americani.   Viene picchiato, frustato e abbandonato alla fame. Quando nel Giugno del ’45 il campo viene liberato Gerardo pesa poco più di 40 kg.

la strana storia

Viene condotto al comando militare di Firenze e da lì parte per fare ritorno a casa. Mentre Gerardo è in viaggio un telegramma raggiunge la moglie e i figli: Gerardo è morto per le ferite riportate in seguito ad un incidente ferroviario.

Ma mentre le speranze abbandonavano la famiglia Gerardo giungeva a Pizzo. Dopo aver perso l’unica corriera che collegava Pizzo a Serra San Bruno Gerardo si mette in cammino attraverso la montagna per tornare dalla sua famiglia. Un camionista serrese lo vede per strada ma stenta a riconoscerlo: un uomo magro, cluadicante e spento che non può ospitare sul suo camion pieno di mercanzie: <<sono Gerardo Amato, “Lu diavuliedu”.>>
Il camionista allora precedendo Gerardo raggiunse la casa della moglie per darle l’annuncio. Tra la speranza e l’incredulità la voce si sparse nel paese e un piccolo corteo con i testa la moglie e i figli di Gerardo gli corse incontro. Ed eccolo comparire, l’ombra di sé stesso. Gerardo era tornato ma non fu mai più quello di prima. Suo figlio Salvatore, nato dopo il suo ritorno, ci racconta che suo padre era un uomo schivo e che pochissime volte parlava di ciò che aveva vissuto in Germania. “Urlava nel sonno, chiedeva aiuto temendo l’arrivo dei tedeschi” . Solo una volta Gerardo con l’orrore negli occhi raccontò cosa accadeva a chi tentava la fuga: venivano bruciati vivi con un cannello a gas.
Dopo il suo ritorno ancora giovane riprese a lavorare per dare un futuro ai propri figli ma evidentemente l’anima di Gerardo era rimasta a Stummlager per non farne mai più ritorno. “Fu come un cortocircuito e mio padre smise di essere”. Fu sottoposto ad elettroshock e il suo cervello svuotato. E non tornò mai più quello di prima. Morì a Serra San Bruno nel 1975.

Molte volte le guerre, gli eccidi che ne seguono, gli orrori che comportano ci sembrano qualcosa di lontano. Qualcosa che difficilmente potrà riguardarci. Conoscere la storia dei nostri padri, dei nostri concittadini, di ciò che hanno dovuto sacrificare, forse ci può dare la dimensione giusta per comprendere che se è accaduto potrebbe riaccadere. Che se ci giriamo dall’altra parte pensando che la cosa non ci riguardi commettiamo lo stesso orrore di chi fingeva, per paura o per volontà, di non sentire l’odore di bruciato nell’aria.
Se non sappiamo, se dimentichiamo, se pensiamo che il capitolo sia chiuso, se abbassiamo la guardia o addirittura neghiamo che ciò sia accaduto, prestiamo solo il fianco a che ciò possa ripetersi.

Seguici sui nostri social

Sabina Maiolo

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *